domenica 21 agosto 2011

Notte di luna piena…

Notte di luna piena. Respiro l’aria fresca e penso: speriamo che le capre non vengano influenzate dai suoi effetti, come l’ultima volta che siamo stati fuori fino alle 23.00 per riportarle a casa.

Le ultime parole famose.

Il giorno dopo, alle 15.30, qualcosa mi diceva che le capre non erano tornate e non sarebbero tornate. Guardo fuori: recinto vuoto. Solo una campanella a farci compagnia, ora che nemmeno le mucche vengono più munte all’alpe ma a Teil, quella di Tettonza, una capra bianca che ha una mammella enorme perché è sotto trattamento antibiotico. Delle altre nemmeno l’ombra.

Chiamo Ron, metto su gli scarponi, prendo il picchetto per i recinti che mi servirà da bastone per l’ascesa, binocolo e macchina fotografica: magari riesco a girare un bel video sul ritorno delle capre, penso.

Mi avvio verso una nuova avventura, al di là della montagna più alta e delle mie paure più radicate.

  Le capre sono sul piano sotto la cresta della croce, tutte affacciate alla dorsale, sembrano essere curiose di osservare il solito panorama da una prospettiva differente. Provo a chiamarle ma niente, si sporgono, mi guardano dall’alto, mi ignorano.

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Chiamo tre, quattro, cinque volte e intanto salgo, lungo il sentiero che porta a Bann, fino ad incrociare la dorsale. A quel punto lascio il sentiero e salgo sulla pendente, finalmente posso sentire lo scampanellio delle mie caprette. Appena avvertono la mia presenza o quella più minacciosa di Ron, si spostano in gruppo e si allontanano nella direzione opposta alla nostra. Sempre più in alto, ignorando allegramente i miei richiami.

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La dorsale si fa sempre più ripida, devo salire aiutandomi con le mani. A un certo punto mi vengono in mente i racconti di Laura e Michele su quella montagna: una ragazza caduta, un cane scivolato giù. Mi tremano le gambe, ho un attacco di panico, chiamo Michele per telefono e gli dico che ho le capre a due passi, non lascio perdere ora, continuo a salire ma poi per scendere pretendo l’elicottero!

Follia pura.

Dove termina il manto erboso inizia la parete rocciosa. Nuda. Scivolosa. Spigolosa. Le capre sono li, dietro un roccione, troppo alto da scalare, troppo sporgente per essere raggirato. Le sento belare, forse sono spaventate anche loro come me, e vogliono comunicarmi le loro ansie.

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Metto il piede su un sasso, in uno, due, tre rimbalzi copre i 500 metri di dislivello che mi separano dal piano e dal sentiero. Paura.

Non c’è niente da fare, le capre invece di avvicinarsi a me si spostano sempre più in là, camminando come equilibriste sulle rocce.

Mi arrendo, comincio a scendere, un passetto alla volta, scegliendo la strada meno irta, cercando di non guardare giù per non avere le vertigini, immersa nel biancore di una nuvola che avvolge me, le capre, Ron, la montagna, in un unico abbraccio.

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Scendo, piano piano, facendo molta attenzione, fino a quando sono a 10 metri dal sentiero, finalmente sono al sicuro penso, e bam…cado a terra. Risultato: un livido enorme, pantaloni rotti, un doloraccio e quattro risate; non si può mai pensare: è finita!

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Le capre sono state fuori tutta la notte. Sono tornate il giorno successivo, scendendo per l’altro fronte della montagna, meno ripido. Ne mancava una all’appello; Mao, che è andato a prenderle, ha detto di aver visto qualcosa precipitare mentre il gruppo scendeva.

Un giorno come tanti, qui in alpeggio.

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